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Schiamazzi grafomani attorno ai fornelli

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La civiltà della forchetta

Il titolo non vuole essere fuorviante,  ma un vero omaggio ad uno storico, nella fattispecie uno storico gastronomico,  (e non solo di quella ligure), che ci ha lasciato da poco. Noi genovesi dobbiamo molto al Professor Rebora, perché, oltre ad altri, ha sempre profuso il massimo delle sue energie negli studi della nostra storia, specialmente quella gastronomica. Ci mancherà il professor Rebora, come ci mancherà Zeffirino, ambasciatore della cucina italiana nel mondo, ma cercheremo di fare del nostro meglio, in quanto liguri ed attaccati al territorio, per tutelare la nostra terra ed i suoi tesori.

È per questo motivo che alla fine mi sono decisa di fare un altro post, in risposta ai commenti che ho letto con estrema attenzione, perché credo che alla fine sia giusto dire pure la mia, visto che in fondo ho scatenato questo vespaio.

Già da subito mi scuso col padrone di casa per il ritardo, ma come avrà intuito ero in tutt’altre faccende affaccendata (non era certo un modo per sottrarmi alla critica della critica) quindi non avevo idea della discussione in atto.

La lettura, dicevo, è risultata interessantissima ho scoperto, ad esempio, che le tradizioni liguri citate nel librone in questione, inerenti l’inserimento della prescinseua-philadelphia-burro provengono niente popòdimeno che da un punto imprecisato del milanese, il che, ovviamente, mi farà dormire sonni più tranquilli da una parte ma mi fanno domandare com’è che non mi risultasse che Milano faccesse parte delle province liguri, però ovviamente sono cosciente che non posso pretendere di sapere tutto. ;-))

Approfitto per salutare la signora Manuela Vanni, creatrice di Gabo, il cuoco più famoso di Prelibandia, e di cui in questa occasione ho apprezzato l’estro e la fantasia nel voler camuffare, con queste strategie cremose, il retrogusto al mentolo del basilico padano, stratagemma che sicuramente avrà raggiunto il suo scopo, coprendo per benino ogni altro gusto, dando come risultato non una salsa ma una crema, diversa dal pesto genovese in questione su cui si sta dibattendo.

La critica alla critica, dicevo, è stata molto gradita, però bisogna anche aggiungere che a criticare di sponda son capaci tutti (più o meno) Però devo anche aggiungere che quando sono convinta delle mie posizioni, ad esempio, non lo faccio. Volevo anche tranquillizzare gli astanti, non sono una persona fissata né un’integralista-fondamentalista talebana, anzi sono una pragmatica che prende atto delle questioni, e qua mi pare che si è capito che i genovesi dovrebbero essere gli ultimi a dire la loro mentre altri, di altre città, avrebbero facoltà di modificare le ricette… ebbè… parliamone :-)

Il pesto genovese lo ripeto: non è ligure, è proprio ge-no-ve-se, così evitiamo ulteriori fraintendimenti, un po’ come il lardo di Colonnata che è di Colonnata e non genericamente toscano, tanto per spiegarci meglio, non è una questione di 10 km più in là o più in qua, i confini di Genova sono sufficientemente documentati; dicevo, il pesto genovese si fa in un solo modo, e forse sarebbe giusto e logico che ove decidessimo di farne evoluzioni di costume, ce le facessimo internos, visto ch’è roba nostra. Essì, mi sono scordata di precisarlo, il pesto genovese è stato registrato proprio per evitare che arrivasse qualcuno a deciderne la sorte, modificarne la struttura o l’evoluzione, cosa ci volete fare, siamo zozzi esclusivisti, avari nel concedere talune libertà. Del resto già successe coi provenzali, si ha presente, si?
Ringrazio Virgilio Pronzati per lo studio sulla questione e riprendo quanto da lui scritto in un articolo:
“Chiariamo definitivamente la querelle su Pesto e Pistou. I provenzali, in particolare i marsigliesi, hanno sempre rivendicato la primogenitura di questa salsa. Niente di più sbagliato. Le prove scritte sono state fornite proprio da un provenzale. Infatti lo chef de Cuisine J.-B. Reboul, scrisse e pubblicò nel 1889 “La Cuisinière Provençale”, un’opera definita in Francia “la Bibbia” della gastronomia della Provenza, lodata anche dal grande Frédéric Mistral. Nella terza tiratura della venticinquesima edizione (1991) de “La Cuisinière Provençale”, a pagina 63, terza riga, si legge: 16 (numero della ricetta). Soupe au Pistou. – Cette soupe, d’origine genoise…. Che dire di più? Bastava leggere. Per chi vuole documentarsi: La Cuisiniere Provençale di J.-B. Reboul – Nouvelle Edition (Troisième tirage de la 25e Edition – Octobre 1991) – P. Tacussel Editeur – Marseille – 90 F.”

Quindi tranquilli, noi genovesi siamo abituati alle polemiche attorno alle nostre ricette, visto che da sempre esiste qualcuno che ne rivedica paternità o diritti di riscrittura.

Del resto anche Marco Guarnaschelli nella sua Grande enciclopedia della gastronomia, con prefazione Petrini, è caduto in errore, citando una ricetta del pesto di un livornese, tal Emanuele Rossi tratta da “La vera cuciniera genovese” scordando peraltro che pochi anni prima era stata pubblicata “La cuciniera genovese” frutto del lavoro di GiòBatta Ratto, a cui si unì, per le edizioni successive alla terza, il figlio Giovanni. La cuciniera genovese difatti è il primo e più completo libro sulla gastronomia del territorio ligure e sul pesto e risale al 1863.

Visto che si dubita delle tracce storiche del pesto e gli si nega la tradizione nella cultura del genovesato suggerisco, tra l’altro, la lettura del dizionario genovese-italiano di Casaccia del 1876, la ricetta è circa la stessa ma scompare la precisazione della tipologia di formaggio. Un’altra interessante citazione si può ricavare anche dal volume “I Liguri a Tavola. Itinerario gastronomico da Nizza a Lerici“, scritto da Massimo Alberini ed edito da Longanesi nel 1965. Alberini sottolinea nel pesto l’importanza di un buon olio d’oliva (extra vergine) della Liguria “di grande finezza e di aroma squisito – un olio – saporito senza essere greve, di colore giallo-oro con qualche riflesso verde smeraldo, delicatissimo e schietto”. Curiosa l’analisi delle origini del pesto: “una derivazione dell’antichissima agliata, la salsa plebea del medioevo, composta da bulbi d’aglio schiacciati“, dove sottolinea come il Rossi (1876) nella sua ricetta fosse piuttosto parco e vago sulla quantità di basilico da usare (qualche foglia), e abbondasse invece nell’aglio (tre o quattro spicchi).

Qualche informazione aggiuntiva su eventuali ipotesi delle origini del pesto si devono ad uno studio finanziato dalla fondazione Carige e dalla Camera di commercio, anni fa e da cui si ricava che Il basilico, come componente primaria e cromatica del “pesto” fa la sua prima comparsa (in un documento scritto e stampato) nelle due Cuciniere, quella di G.B. Ratto (1863) e quella di Emanuele Rossi (1865).

Anche se molto prima compariva nei ricettari dei frati con la denominazione di “Salsa verde alla genovese” in cui comparivano le acciughe a quanto pare ingrediente amato dai frati visto che compariva un po’ ovunque, ad esempio anche nella salsa di noci.

I Ratto indicano la salsa come “battuto alla genovese” con la parola “pesto” tra parentesi. Gli ingredienti sono quelli che tutti sappiamo: sale grosso, aglio, parmigiano, pecorino, basilico in foglie, pinoli (e/o, più raramente e soprattutto nel Tigullio, noci e nell’estremo ponente le nocciole) olio extravergine d’oliva. Ratto parla già, a proposito del pecorino (in parti eguali, dice, rispetto al parmigiano), di “sardo”, ma non specifica se fresco o stagionato e su questa questione esiste a tutt’oggi una irrisolta querelle.

il che fa intendere che le variazioni sul tema sappiamo anche farcele in casa:-)) giacché registrano le evoluzioni di costume di una comunità non di un singolo, addirittura all’esterno di detta comunità  :-))

il Rossi (che è livornese) adombra l’ipotesi di sostituire il pecorino con il “formaggio d’Olanda”, quello ricoperto di cera rossa. Le spiegazioni vengono dalla politica e dalla storia economica: a Genova, sin dal XII secolo, si consumavano formaggi sardi, freschissimi e stagionati, ricotte di capra e di pecora (oltre che molta carne ovina, e non solo a Pasqua), perché la Sardegna (e poi la Corsica) era una sorta di colonia genovese. I Doria andarono a un pelo da diventarne re e vi mantennero una sorta di protettorato sino alla fine del XIV secolo, quando lasciarono sgombero il campo agli Aragonesi. Pecore e capre arrivavano a Genova vive, via mare, sulle galee e venivano in branco avviate al macello e quindi vendute nei numerosi negozietti d’una strada che ancor oggi si chiama Vico dei Caprettari. Un discorso simile vale per le Fiandre con le quali i rapporti commerciali cominciarono – via mare – alla fine del XIII secolo e si fecero nel tempo sempre più fitti. All’inizio del XIX secolo, la colonia olandese era numerosa e attiva: il formaggio dalla crosta fiammeggiante, lievemente acidulo e appena piccante, era assai diffuso e non costava neppure troppo. Certamente assai meno del parmigiano. Il pesto, dunque, è un bastardo, figlio di nessuno, oppure può vantare degli antenati?
Non possediamo un registro parrocchiale che testimoni il battesimo del pesto. Possiamo soltanto azzardare, senza prove obiettive, un paio di ipotesi. Nel primo caso potremmo trovarci dinnanzi all’evoluzione d’una “agliata”, salsa medievale diffusa in tutta Europa con la quale si condivano minestre, carni bollite e arrostite, insalate e, forse, anche qualche frettolosa pasta asciutta (nella cucina provenzale resiste, nella bouillabesse, come celestiale e infernale aggiunta, la mayonnaise aioli). Ecco quindi che a Genova – certamente in città, perché il pesto è un prodotto urbano, per via del basilico a foglie tenere, dal profumo persistente ma esile, frutto della coltivazione in serra o all’ombra protettiva d’un terrazzo – un cuoco sconosciuto, un trattore di bell’ingegno, un bel mattino, decide di aggiungere il basilico all’agliata, magari ricordando una salsa ponentina, il marò che prevede le fave fresche frantumate nel mortaio insieme al formaggio e diluite nell’olio così da farne una ruvida salsa per bolliti o arrosti.
Seguiamo un secondo percorso, sempre a tentoni. Nel Medio Evo era conosciuta e diffusa, per condire lasagne (ne abbiamo una ricetta tardo trecentesca), la salsa di noci (che dovevano essere fresche, perché si trattava sempre di ricette stagionali) di evidente derivazione orientale, così come il leggendario formaggio, la prescinsêua, che è un derivato dello yogurth. Nel pesto della Riviera di Levante e nei pansotti da condire con la salsa di noci la prescinsêua è una originale e immancabile presenza. Ora, il nostro pesto potrebbe essere frutto di una variazione, con l’aggiunta appunto del basilico, della salsa di noci. In un caso o nell’altro, per dirla con la filosofia greca, il pesto, la cui nascita e fulminea diffusione dovrebbe essere collocata negli anni Quaranta e Cinquanta del XIX secolo, è davvero un clinamen, una sorta di imprevisto, una gettata di dadi degli dei inquieti. Vogliamo scandire la liturgia della sua preparazione, con la ritualità feticistica d’un maestro del tè giapponese?
[fonte]

Identità territoriale e impossibilità di repliche in altre zone: gli elementi cardine che hanno giustificato la richiesta di dop per il basilico valgono anche per il pesto, perciò i DOC, le DOP, le IGP o i disciplinari, più in generale, sono un po’ come i sistemi d’allarme, si è obbligati a farle per evitare abusi, confusioni o fraintendimenti e non, come mi è parso di capire dai commenti, per impedire le libertà altrui, anche perché diciamocelo, difficilmente a qualcuno verrebbe in mente di chiamare Sciacchetrà un passito qualunque, o sbaglio? E nel caso succedesse bisognerebbe valutare eventuali abusi, ovvero far passare per il prezioso e costosissimo passito un altro prodotto.

Perché s’è vero che chiunque può scrivere qualunque cosa, è pure vero che esiste un principio di affidabilità perché è innegabile che una ricetta genovese firmata da Ratto, Accame o Schiaffino (eccetera) avrà qualche requisito di affidabilità in più rispetto ad una vergata da Rossi o altri, specialmente se vivono al di fuori della regione. Non è solo una questione di esclusività, ma sono proprio la cultura e il clima del territorio a cambiare.

Chiunque domattina, giusto perchè sono giorni di festa, può scendere in cucina e farsi un pesto nuovo di zecca, partendo dalla ricetta che più gli piace, ma il buongusto (senza tirare in ballo il buonsenso) dovrebbe in qualche modo suggerire di chiamare il pesto differentemente da “pesto genovese”. Del resto non si capisce proprio cosa impedirebbe al gourmet (o chef) di turno a battezzare il pesto in maniera diversa. Ma su questo non si riesce ad ottenere risposte, strano vero?
Abbiamo decinaia di pesto mariuccia e non ci scandalizzeremmo affatto, lo stupore, semmai, deriva da attribuzioni di tradizioni inesistenti, e spacciare per vera una ricetta modificata, se poi si scopre che dette modifiche hanno origine in padania l’ilarità sorge spontanea.

E lo voglio ripetere, perché secondo me proprio non si vuole capire che non è la modifica in sé che ad infastidire, ma l’etichettatura, altri chiunque altro fa e ha fatto varianti ma un conto è fare una variante (cioè una nuova ricetta) e ben altro conto è etichettare come “pesto genovese” una ricetta che non ciazzecca.

Non è una mia fissazione essere così puntigliosa su questo argomento, apparte la quisquilia che il pesto è parte integrante dell’essere genovese e ligure, perchè anche in passato, ogniqualvolta si è usato questo termine a caso, si è fatto puntualmente notare, e tra parentesi da persone ben più importanti di me.

Di sicuro il pesto riportato nel libro in questione di pesto ha ben poco, visto che l’elaborazione, come si è appreso, deriva direttamente dal milanese. Amenochè non si decida diversamente con suffragio universale. Però mi si consenta di fare un paio di domande, anche se sono consapevole che rimarranno senza rispota, si sopporta abbastanza poco tutti i disciplinari o il fastidio è selettivo?

Bisogna anche rilevare che se non ci fossero le confraternite e gli ortodossi del gusto quale memorabile occasione avrebbero gli altri per polemizzare (soprattutto del nulla)? Del resto il mercato è arrivato ad uno stadio di follia tale che un minimo di puntualizzazioni bisogna per forza farle anche se si è dei perfetti signor nessuno (come me).

Il mio è un dubbio più che legittimo perché vorrei davvero capire se nell’aprire una bottiglia etichettata (chessò) Brunello o Barolo (etc), si scoprisse che ci hanno infilato uve diverse da quelle prescritte, (oppure bottiglie dopate com’è già successo), si avrebbe lo stesso atteggiamento? La stessa cosa potremmo dirla sul lardo di colonnata, sul parmigiano e di un’infinità di altri prodotti legati al territorio d’origine. Perché in quel caso mi chiedo come mai non si è fatta presente codesta posizione tollerante attribuendo al metanolo lo spirito libero che in realtà, leggendo taluni commenti, si intuisce? O (ancora) come mai per il vino, è mancata questa elasticità mentale che invece a quanto pare bisogna accettare supinamente per quello che riguarda il pesto? Forse che il pesto genovese ha minore dignità e quindi di conseguenza si camuffa, dietro una presunta proprietà nazionale, la possibilità di bistrattarlo? Non è che dubito, per carità, ci mancherebbe, ma il sospetto che si fa tanto i liberali su usi e tradizioni altrui partendo da cucine foreste, un po’ viene eh! La stessa disinvoltura si avrebbe se si comperasse un libro il cui titolo fosse “La divina Commedia” per poi scoprire al suo interno la rivisitazione delle terzine di un qualche (altro) autore? A quel punto perchè non dichiarare il rifacimento già nel titolo?

Sul mortaio vs frullatore il mio braccio da massaia, per dirlo alla Bay, è pronto a dare ampia dimostrazione, anche perché lo ribadisco, il mortaio non è un’inutile snobbaggine ma ha un suo preciso perché. Anzi invito i diffidenti a partecipare alla manifestazione sul pesto che si tiene ogni anno a palazzo Ducale.

Sempre sul filo delle (poche) tracce esistenti, c’è un bell’estratto da: Le ricette liguri per tutte le occasioni, M. Dolcino; e La cucina di Genova e della Liguria dall’A alla Z,  A. Schmuckher

Bisogna anche ammettere che certi commenti erano un’ode all’insofferenza (nei miei confronti? mah! il che ci sta, ci mancherebbe) ma in realtà in tempi non sospetti gli stessi o diversi autori hanno dichiarato né più né meno quanto ho espresso io, nonostante i recenti allarmi salutistici.
Amenoché non mi sia sfuggita la cucchiaiata di philadelphia, o che l’allarme non sia determinato proprio da questi stravolgimenti. Chissà, magari chiederemo agli assaggiatori ufficiali!

Quello ch’è certo è che la tostatura dei pinoli, il pecorino romano e l’aggiunta di ingredienti come burro, prescinseua o philadelphia stravolgono la struttura della ricetta, creandone una nuova. Non voglio e non mi interessa neppure stabilire se migliore o peggiore, il fatto è ch’è una roba diversa che col pesto non ha nulla a che fare.

Un’ultima accorata preghiera, la prossima volta che si volesse scoprire il motivo per cui il pesto non lega alla pasta, venite a farvi un giro da ‘ste parti, saremmo lieti di avervi graditi ospiti ma perlamordiddio non chiedete la formaggiera in tavola, anche perché, se in trattoria, si rischierebbe di attendere a lungo. Il pesto è la sintesi di un perfetto equilibrio di ogni singolo ingrediente, il che, come si intuirà, è preferibile (se non obbligatorio) non aggiungere alcunché (specie nel piatto).

Previous Post: « Auguri… auguronissimi con tutto il cuore
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Reader Interactions

Comments

  1. Roberto says

    venerdì 26 Dicembre 2008 at 21:40

    Non posso non essere d’accordo. Il paragone con le bottiglie di brunello, credo sia l’estrema sintesi di un ragionamento che non fa una piega. Una ragionamento che sposo in pieno, anche se ho una base “culturale” sicuramente più scarna di quella che qui dimostri. Ancora complimenti.

    Rispondi
  2. fiordisale says

    venerdì 26 Dicembre 2008 at 23:04

    Roberto io sono semplicemente stupita che si usino sempre due pesi e due misure, come se la logica e la coerenza dovrebbero essere al servizio di qualcuno.

    Rispondi
  3. Lisa says

    sabato 27 Dicembre 2008 at 09:53

    Tanti Tanti Cari Auguri di Buone Feste !!!

    Rispondi
  4. dada63 says

    sabato 27 Dicembre 2008 at 10:08

    come al solito, sei un mito! probabilmente ormai in tempi di revisionismo si vuol far passare di tutto…..

    Rispondi
  5. Anna righeblu says

    sabato 27 Dicembre 2008 at 17:19

    Argomentazioni ineccepibili…
    Ti ringrazio per essere passata da me, anch’io ti auguro un felice 2009!

    Rispondi
  6. Aelys says

    domenica 28 Dicembre 2008 at 10:47

    Ricambio con piacere la visita, è sempre interessante scoprire nuovi blog! Nei prossimi giorni, quando questa vita rallenterà un pò il ritmo, mi riprometto di leggere alcuni dei tuoi post precedenti. Tanti auguri di buon anno, già che ci siamo!

    Rispondi
  7. Fabio r says

    domenica 28 Dicembre 2008 at 15:00

    ciao ! che bella scoperta (serendipity?) il tuo blog ! dopo il passaggio nel mio (grazie) sono venuto anch’io a sbirciare e mi sono imbattuto in questo post assolutamente affascinante e documentato! wow!
    musica x le mie orecchie di appassionato lettore e cultore di storia della gastronomia (cresciuto con montanari e cortonesi) che scrivacchia di alimentazione e cucina nel medioevo e perdipiu’ umbro!!!
    ci tornerò presto, non aver dubbi!
    buone feste.

    Rispondi
  8. Giovanna says

    domenica 28 Dicembre 2008 at 16:50

    Felicissimo 2009, Gì.
    Un abbraccio.

    Rispondi
  9. manu says

    domenica 28 Dicembre 2008 at 17:01

    passo per augurarti buone feste!!! un bacio

    Rispondi
  10. may26 says

    domenica 28 Dicembre 2008 at 21:34

    ♫♫♫ Ciao Gi , BUone Feste ♥♥♥ ♫♫♫

    Rispondi

Trackbacks

  1. Post-it (zero) | fiordisale ha detto:
    giovedì 16 Aprile 2009 alle 19:26

    […] padiglione B della Fiera, però io una sbirciatina agli scritti del Professor Rebora ce la darei (ricordate? io lo amavo fin da quando ero […]

    Rispondi
  2. Originali si nasce (falsi si diventa) | fiordisale ha detto:
    venerdì 20 Novembre 2009 alle 02:23

    […] che in genere ruotano solo attorno al denaro (o carriere, potere, etc.). In questi post mi sono dilungata a spiegare l’importanza del rispetto che si deve ai prodotti e alle ricette del territorio, […]

    Rispondi
  3. Pesto Day, giornata del Pesto Genovese (scusate l’orgoglio) @ fiordisale ha detto:
    lunedì 17 Gennaio 2011 alle 10:44

    […] Ma c’è di peggio, perché il pesto viene brutalmente deturpato e/o contraffatto anche in Italia, ve la ricordate, si, l’aspra critica ad Allan Bay che con la sua famigerata prescinseua (o il Philadelphia in alternativa) inglobate nella ricetta, aveva fatto ridere centinaia di persone? […]

    Rispondi

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