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Schiamazzi grafomani attorno ai fornelli

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Anticipi di stagione, ovvero otto marzo è sempre

Fa strano pensare a Barletta a quasi cento anni da quando Rosa Luxemburg propose l’otto marzo, come La Giornata Internazionale della Donna (e non Festa della Donna), volendo così ricordare sia le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze cui erano (e sono ancora) fatte oggetto in molte parti del mondo.
Nel 1908 a New York, le operaie dell’industria tessile Cotton scioperarono per protestare contro le terribili condizioni in cui erano costrette a lavorare. Lo sciopero si protrasse per alcuni giorni, finché l’8 marzo il proprietario Mr. Johnson, bloccò tutte le porte della fabbrica per impedire alle operaie di uscire. Allo stabilimento venne appiccato il fuoco e le 129 operaie prigioniere all’interno morirono arse dalle fiamme. Non ci è dato sapere se Mr. Johnson arda tutt’ora tra le fiamme dell’inferno, ma ce lo auguriamo di cuore.
Oggi siamo molto più civili, difatti le donne morte nel sottoscala di una palazzina di Barletta confezionavano tute e magliette per meno di quattro euro all’ora per loro scelta, si dice. Ma quale scelta può offrire la disperazione? Avevano su per giù trent’anni, un marito lasciato a casa da altri datori di lavoro e il mutuo della casa da pagare: una condizione così disperata da non consentire alcun tipo di contrattazione, meno che mai se la posta in gioco fosse stata la sicurezza delle loro vite o la propria dignità. Questa tragedia ci ha finalmente strappato ai commenti miserevoli sul capo del bunga-bunga clan e sul suo partito della gnocca, ci ha riportato drammaticamente al nostro mondo vero, alla realtà di tante famiglie con un destino analogo a quello delle ragazze del sottoscala fatiscente, dove si lavora ammassati come conigli in tane senza né aria né luce del sole e senza uscite di sicurezza. Quante sono le lavoratrici che accettano simili situazioni di sfruttamento pur di riuscire a far sopravvivere le loro famiglie, andando a tamponare uno stato sociale diventato oramai inesistente?
Sono morte a metà giornata, perciò se ne deduce che quel giorno sono morte per un guadagno di inferiore ai 20 euro, il costo della pizza, e questo un po’ fa rabbrividire.
Le operaie, oltre a non arrivare nemmeno a percepire 4 euro l’ora, non avevano alcun contratto di lavoro e i loro turni lavorativi superavano di gran lunga le 8 ore stabilite dalla legge, del resto in quei casi basta che si rompano le scarpe al ragazzino e l’urgenza di ulteriori soldi, nella fattispecie spiccioli, si fa ancor più pressante.
Però il panorama locale ci racconta anche un’altra storia, stiamo assistendo alla deriva caricaturale della tanto lodata globalizzazione. Ci stiamo adeguando al peggio. Stiamo importando condizioni di lavoro che fino a ieri erano di esclusività dei cinesi. Adesso le tute italiane sono low cost, lordate dalla stessa inciviltà dei sobborghi asiatici.
Sono morte insieme, le quattro operaie, vicine alle loro macchine, ai telai elettrici, alle spolette, è stato un attimo e il muro non c’era più, un tuono, una nuvola di fumo e le pareti sbriciolate le hanno seppellite insieme al loro futuro e ai loro sogni.
Sono morte da operaie con un salario in nero e senza contratto.
Barletta ha rimesso in primo piano la parola operaie, in disuso da anni, da quando cioè tutti ci hanno voluto svendere l’idea che non esistessero più, oramai superate dai famigerati colletti bianchi.
Invece le avevano solo nascoste negli scantinati. Quelle operaie inchiodate per ore alle macchine di quel sottoscala fatiscente, sono vittime della nostra società ancor prima che del lavoro. Un lavoro non è un lavoro se fa perdere la sua dignità e se mette in discussione il diritto alla vita. Il silenzio tombale del Premier e del ministro Sacconi la dicono lunga sulle loro reali responsabilità, dopo che per anni si sono permessi, con arroganza, di rimettere in discussione diritti e tutele.

Su un muro di Barletta c’era la scritta “La democrazia muore anche di queste cose” ed io credo sia vero se accettiamo che un capo del governo ci parli di gnocca di fronte a queste immani tragedie, ma so anche che possiamo e dobbiamo impedirlo.

si ringraziano i proprietari dell’immagine

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Reader Interactions

Comments

  1. brii says

    sabato 8 Ottobre 2011 at 09:41

    Mi sento male :(
    E’ un’ingiustizia difficile da digerire.

    I miei sono immigrati, sono arrivati in Svezia dall’Italia e dalla Croazia nel 1961/62.
    Hanno lavorato come operai per 40anni.
    Quando sono andati in pensione, la pensione è stato calcolato in base ai danni che hanno subito.
    Mio padre ha perso l’udito (15anni in una fabbrica che faceva lattine, un rumore assordante) poi ha trovato lavoro come magazziniere.
    Mia madre ha perso l’olfatto (12anni in una fabbrica che faceva calze di nylon colorate) e ha una spalla consumata (28 anni in una fabbrica tessile a fare lo stesso movimento )

    Ma in tutti quei anni sono sempre stati tutelati, nel senso che il governo ha sempre tutelato i propri operai. Controlli medici, controlli di sicurezza p.es. Organizzavano perfino corsi di lingua svedese per immigrati. Tutto gratis ovviamente.

    Non che non ci sia lavoro nero in Svezia, ma quest’estate il governo si è rotto le balle di avere tutti quegli immigrati che raccoglievano frutta/lavoravano i campi per poche corone. Hanno preso per l’orecchio gli svedesotti sfruttatori e hanno fatto mettere in regola tutti.

    é anche vero che in Svezia sono poco più di 8 milioni di persone, forse è un paese più facile da gestire non lo so, ma fa star molto male leggere che ancora oggi ci sono persone che muoiono sul lavoro per le condizioni disumane.
    No, anzi non fa star male, fa incazzare!

    Scusa il papiro, Gì :(
    baciusss

    Rispondi
  2. donatella says

    sabato 8 Ottobre 2011 at 15:01

    Ciao. La rabbia provata alla nostizia di quel crollo è stata troppo grande, troppo forte da poter essere espressa in italiano corretto, senza insulti. Ora, calma, mi associo al tuo dissenso, al tuo sgomento. I telegiornali ci propinano l’opinione scandalizzata dei giornalisti che intervistano la superstite che, dicono, “difende ancora quel lavoro” dopo che le sue compagne sono morte: scandalo? ma se quello era l’unico lavoro che permetteva loro di dar da mangiare ai figli, di pagare qualche bolletta, di superare il mese, di essere persone (perché, è vero, il lavoro nobilita l’uomo, anche se oggi ci stanno togliendo anche questo), come si può essere scandalizzati? Quella donna difende quel misero stipendio che aveva, quel posto, quelle ragazze, quei maglioni non perché tutto giusto e bello e divertente, ma perché tant’è ciò che aveva. Ora non ha lavoro né compagne, eppure domani mattina il suo bambino vorrà mangiare, andare a scuola, lavarsi, vestirsi. Che fare? Trovare un lavoro simile a quello, l’unico che può trovare nel suo territorio in questo momento.
    Siamo arrivati all’inverosimile: dover difendere la morte per giustificare una vita fatta di stenti. Non si deve morire di lavoro. Eppure succede. Dai cinesi, bengalesi etc prendiamo gli esempi che non dovremmo prendere, e solo quelli: invece di esportare loro un pò di diritto del lavoro e di idee del sindacato, noi prendiamo i loculi privi di luce, il pugno di riso come stipendio, la fatiscenza degli edifici, la morte inevitabile..
    Siamo tornati, stiamo tornando indietro. La condizione della donna, per colpa di molte donne e degli uomini, si è terribilmente involuta, tornando a livelli vecchi (pre reggiseni in fiamme) ma mascherati da libertà e indipendenza. Emancipazione. Le condizioni di lavoro, poi, sono a livello degli antichi egizi: non per la bravura degli ingegneri che hanno progettato piramidi che sono ancora lì (e non c’è terremoto dell’Aquila che tenga), ma perché si muore sotto un blocco di granito, per una corda che si spezza, per i mattoni che vengono giù. Si muore e si ricomincia a lavorare per morire, in un ciclo infinito.
    Scusami per la lunga risposta, ma volevo solo dimostrare la mia vicinanza a ciò che hai scritto e alle famiglie di quele povere donne.
    Grazie.

    Rispondi
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